Requiem per un’amica (Rainer Maria Rilke)
Parigi, 31/10 – 3/11 1908
Ho morti, e li ho lasciati andare e stupivo a vederli così in pace, così presto accasati nella morte, così giusti, così diversi dalla loro fama. Solo tu torni indietro; mi sfiori, ti aggiri, vuoi cozzare in qualcosa che risuoni di te e ti riveli. Oh, non prendermi quel che lentamente imparo. Io ho ragione; sei in errore se hai, commossa, nostalgia di cose. Noi trasformiamo queste; non sono qui, le riflettiamo in noi dal nostro essere appena le riconosciamo. Ti credevo assai più avanti. Mi sconcerta che erri e ritorni proprio tu, che più di ogni altra donna hai trasformato. Che ci spaventassimo quando moristi, no, che la tua forte morte c’interrompesse oscuramente strappando via il prima dal poi - ciò riguarda noi; trovare un nesso in ciò sarà il lavoro che facciamo sempre. Ma che ti spaventassi tu e ancora adesso abbia spavento quando spavento più non vale; che perda un pezzo della tua eternità ed entri dentro qui, amica, qui, dove nulla ancora è; che distratta, per la prima volta distratta nel gran tutto e mezza persa, non afferrassi il sorgere delle nature infinite come afferravi qui ciascuna cosa; che dall’orbita che già ti aveva accolto la muta gravità di una qualche inquietudine ti attragga giù verso il tempo contato - questo mi desta spesso a notte come un ladro che effrange. E potessi io dire che sol ti degni, che vieni per generosità, per esuberanza, in quanto sei così sicura, così in te stessa, che gironzoli come un fanciullo impavido di luoghi dove si fa del male - ma no: tu implori. Questo mi va fin dentro le ossa e stride come una sega. Un rimprovero che muovessi da fantasma, muovessi rancorosa a me quando di notte mi ritiro nei miei polmoni, nelle mie budella, nell’ultima più angusta cavità del cuore - un tale rimprovero non sarebbe crudele com’è questo implorare. Cosa implori? Di’, devo mettermi in viaggio? Hai abbandonato in qualche posto una cosa che si affligge e che ti vuole seguire? Devo raggiungere un paese che non vedesti benché ti fosse affine quanto l’altra metà dei tuoi sensi? Navigherò i suoi fiumi, scenderò a terra e chiederò di costumanze antiche, parlerò con le donne all’uscio e le starò a guardare mentre chiamano i figli. Terrò a mente come si avvolgon lì del paesaggio fuori nell’antico lavoro dei pascoli e dei campi; pretenderò d’esser condotto innanzi al loro re, e indurrò i sacerdoti con la corruzione a pormi innanzi al simulacro più potente e ad andar via chiudendo le porte del tempio. Ma allora, quando avrò saputo molto, contemplerò semplicemente gli animali, che un che delle movenze loro scivoli di qua nelle mie giunture; avrò un’esistenza breve nelle loro pupille che mi terranno e lentamente lasceranno, placide, senza giudicare. Mi farò elencare dai giardinieri molti fiori, così che nei frantumi dei bei nomi propri riporti un resto qui di quei cento profumi. E frutti comprerò, frutti dove la terra si ritrova ancora, fino al cielo. Ché la capivi tu, la pienezza dei frutti. Li posavi su piatti innanzi a te e controbilanciavi con colori il loro peso. E come frutti vedevi anche le donne e così vedevi i bimbi, dall’interno spinti nelle forme del loro esistere. E vedevi te stessa infine come un frutto, ti cavavi fuori dai tuoi vestiti, ti portavi allo specchio, ti lasciavi andar dentro fino al tuo sguardo escluso; e questo rimaneva grande innanzi e non diceva no: «son io», ma: «questo è». Così privo di curiosità era infine il tuo sguardo e così senza possesso, di così vera povertà, che non desiderava più nemmeno te: santo. Così voglio serbarti, come t’introducevi nello specchio, profondamente dentro e via da tutto. Perché vieni diversa? Perché ti smentisci? Perché vuoi darmi a intendere che in quelle perle d’ambra attorno al collo tuo restava un po’ della gravezza di quel peso che non è mai nell’aldilà d’immagini pacificate; perché mi mostri nel tuo contegno un cattivo presagio; cosa ti muove a esporre i contorni del tuo corpo come le linee di una mano, così che io non possa più vederli senza fato? Vieni qui al lume della candela. Non ho paura di contemplare i morti. Se vengono, hanno diritto a soffermarsi nei nostri occhi quanto le altre cose. Vieni qui; staremo un poco in quiete. Osserva questa rosa sul mio scrittoio; la luce attorno a lei non è precisamente timida come sopra te? Nemmeno lei potrebbe essere qui. Nel giardino là fuori, non mischiata con me, avrebbe dovuto rimanere o svanire - be’, resiste così: cosa conta per lei la mia coscienza?
Non spaventarti se adesso comprendo, ah, ecco che sale in me: non posso altrimenti, devo comprendere, anche a costo di morirne. Comprendere che sei qui. Comprendo. Proprio come a tentoni un cieco comprende una cosa, io sento la tua sorte e non so darle nome. Lamentiamo insieme che uno ti abbia presa dal tuo specchio. Puoi ancora piangere? Non puoi. L’afflusso potente delle tue lacrime l’hai trasformato nel tuo maturo contemplare, e stavi per convertire così ogni tuo umore in una forte esistenza che cresce e circola, in equilibrio e alla cieca. Allora ti strappò un caso, il tuo ultimo caso ti strappò indietro dal tuo progresso estremo giù in un mondo dove gli umori vogliono. Non ti strappò interamente; strappò solo un pezzo dapprima, ma allorché attorno a quel pezzo la realtà aumentò di giorno in giorno sino a renderlo pesante, tu avesti bisogno di te intera: allora reagisti e ti staccasti a frammenti dalla legge con fatica, perché avevi bisogno di te. Allora ti sgombrasti e dissotterrasti dal caldo humus notturno del tuo cuore i semi ancora verdi da cui sarebbe germogliata la tua morte: la tua, tua propria morte, corrispondente alla tua propria vita. E li mangiasti, i chicchi della morte tua, come tutti gli altri, mangiasti i suoi chicchi, e ti restò un sapore di dolcezza che non supponevi, ti vennero labbra dolci - tu, ch’eri dolce già dentro nei sensi. Oh, lamentiamo. Sai come il tuo sangue tornò esitante e controvoglia da una circolazione senza pari allorché lo richiamasti? Come ricominciò confuso il piccol circolo del corpo; come entrò pieno di sospetto e di stupore nella placenta e fu improvvisamente stanco di quel lungo ritorno. Tu lo spronasti, lo spingesti avanti, lo tirasti a strattoni al focolare come si tira un branco di animali al sacrificio; e in più volevi che ne fosse lieto. E ci riuscisti infine: fu lieto e accorse e si concesse. A te sembrò, poich’eri abituata alle altre proporzioni, che sarebbe stato soltanto per un poco; ma ora eri nel tempo, e il tempo è lungo. E il tempo passa, e il tempo aumenta, e il tempo è come la recidiva di una lunga malattia. Quanto fu breve la tua vita se la compari a quelle ore in cui sedevi e tacendo piegavi giù le tante forze del tuo tanto futuro verso quel nuovo germe di bambino che di nuovo era destino. Oh, lavoro penoso. Oh, lavoro oltre ogni forza. Lo svolgevi giorno per giorno, ti trascinavi ad esso e traevi la bella trama dal telaio e impiegavi tutti i tuoi fili ad altro scopo. E alla fine ti restò il coraggio di festeggiare. Perché una volta a capo, volesti una ricompensa, come i fanciulli quando han bevuto l’infuso dolceamaro che forse ristabilisce. Così ti premiasti – ché da ogni altro eri troppo lontana, e ancora adesso; nessuno avrebbe potuto immaginare quale premio ti andasse bene. Tu lo sapevi. Sedevi ritta nel letto del parto, e innanzi a te stava uno specchio che ti restituiva interamente tutto. Ora, questo tutto eri tu e interamente innanzi, e dentro lì era solo inganno, il bell’inganno di ogni donna cui piace mettersi gioielli e pettinarsi e rifarsi i capelli. Così moristi come un tempo morivano le donne, moristi all’antica nella casa calda la morte delle puerpere che vogliono richiudersi e non lo posson più, poiché quel buio che anche dettero alla luce ritorna ancora e preme ed entra.
O non si sarebbe tuttavia dovuto trovare delle prefiche? Femmine che piangono per denaro e che si possono pagare perché urlino la notte, quando si fa silenzio. Usanze, sì! – non abbiamo abbastanza usanze. Tutto va e finisce in chiacchiera. Così devi venire tu, morta, e qui con me recuperare lamenti antichi. Odi che sto lamentando? Vorrei gettare la mia voce come un panno sui cocci della morte tua e tirarla con violenza finché va in brandelli, e tutto quanto dico dovrebbe così andare e congelare avvolto negli stracci di questa voce - si restasse al lamento. Ma adesso accuso: non quell’uno che ti ritrasse da te (non arrivo a distinguerlo, è come tutti), ma tutti accuso nella sua persona: il maschio. Se in qualche parte affiora dal profondo un tratto di me bambino che ancora non conosco, forse il tratto più essenziale e puro della mia infanzia - non voglio saperlo. Un angelo voglio farne senza neanche guardare, e lo voglio lanciare nella prima fila di angeli clamanti che ricordano Dio. Ché questo soffrire dura già da troppo, e nessuno ne è capace; è troppo gravoso per noi, il soffrire arruffato del falso amore che, poggiando su prescrizione come su abitudine, dice di essere un diritto e prolifera dal torto. Dov’è un maschio che ha diritto al possesso? Chi può possedere ciò che non tiene se stesso, ciò che di tempo in tempo solo si prende felicemente al volo e si ributta lì come un bimbo la palla? Quanto poco l’ammiraglio può fissare una nike alla prua della nave quando la levità segreta del suo nume la leva via di colpo nel chiaro vento marino, altrettanto poco può uno di noi chiamare la donna che non ci scorge più e prosegue su una striscia sottile della sua esistenza come per un miracolo, senza infortuni - a meno che non si abbia vocazione e gusto della colpa. Ché questo è colpa, se c’è una qualche colpa: non arricchire la libertà della persona amata di tutta la libertà che uno procura in sé. Noi abbiamo, quando amiamo, appunto solo questo: lasciar l’un l’altro a sé; ché il tenerci ci risulta facile e non è neanche da imparare.
Ci sei ancora? In che angolo sei? Hai saputo così tanto di tutto ciò e così tanto hai potuto, allorché te ne andasti aperta a tutto come un giorno che spunta. Le donne soffrono: amare significa esser soli, e gli artisti intuiscono talvolta nel lavoro che devono trasformare quando amano. Cominciasti entrambi; entrambi sono in ciò che una gloria ora ti toglie sfigurandolo. Ah, eri lungi da ogni gloria. Eri inappariscente; avevi sommessamente raccolto in te la tua bellezza come si tira dentro una bandiera al grigio mattino di un giorno feriale, e volevi null’altro che un lungo lavoro - che non è compiuto, tuttavia non compiuto. Se ci sei ancora, se in questo buio c’è ancora un posto dove il tuo spirito delicato vibri alle piatte onde sonore che una voce, solitaria nella notte, suscita nella corrente di un’alta stanza - allora ascoltami: aiutami. Vedi, noi scivoliamo così, senza sapere quando, dal nostro progresso giù in qualcosa che non supponiamo; lì dentro c’impigliamo come in sogno e lì dentro moriamo senza destarci. Nessuno è più avanti. A chiunque ha sollevato il proprio sangue in un’opera che diviene lunga può capitare di non più tenerlo alto e ch’esso segua il peso suo, senza valore. Da qualche parte infatti c’è un’antica ostilità tra la vita e il gran lavoro. A che la riconosca e dica: aiutami. Non tornare. Se lo sopporti, sii morta tra i morti. I morti hanno molto da fare. Ma aiutami lo stesso senza dover distrarti, come mi aiuta a volte quello ch’è più lontano: in me.
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